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Il triste caso Castaldo e lo stupro con i jeans

Il recente e triste caso Castaldo (“femminicidio” con “pena dimezzata causa tempesta emotiva”, per intenderci) mi ha fatto tornare alla mente un altro caso, ormai remoto, quello dello “stupro con i jeans”. Ancora oggi, a distanza di vent’anni,  viene da molti ricordato così come venne venduto (e come viene ancora oggi venduto, basti spulciare il web) dai titoloni di tutti i maggiori quotidiani - la Repubblica naturalmente per prima e a pieni polmoni - alla turba giustizialista e benpensante degli scagliatori di prime pietre: “Sentenza shock: stupro, assolto perché  lei portava i jeans”, et similia. Indignazione collettiva, femministe e (soprattutto) femministi in rivolta, condanne senza se e senza ma accompagnate da proclami roboanti di riforma della Giustizia da parte di politici di ogni ordine e grado, telegiornali e talk show invasi da deputate bipartisan finalmente unite nella comune lotta per riaffermare la lesa dignità della donna. Che la situazione fosse surreale era insito già nei titoli di cui sopra: come si sarebbe potuto, in un Paese civile o presunto tale, essere al tempo stesso assolti da un tribunale dello Stato e al contempo essere pubblicamente appellati rei? Il polverone mediatico e il mulinare minaccioso di disegni di legge-lampo avanzati da più parti per arginare gli eccessi garantisti di certi tribunali  e prevenire le migliaia e migliaia di stupri con i jeans, impuniti e impunibili, cui la societa civile avrebbe dovuto assistere, impotente, a causa dell’inopinato precedente, si smorzarono con la medesima frettolosa impazienza con cui erano subitamente montati. Non se ne parlò più e, grosso modo nei termini che ho appena riferito, lasciarono una pur flebile traccia nelle memorie e nella cultura del nostro popolo. Solo i pochi che a distanza di qualche tempo (e con non pochi sforzi, a causa della reticenza dei media quando si tratti di passare dai titoli scoop all’analisi tecnica dei reali contenuti) andarono a leggersi i documenti della Cassazione, appresero che non si era trattato affatto di una sentenza di assoluzione bensì di un annullamento, cioè di un procedimento (un processo d’Appello, nella fattispecie) da rifare, due cose tra loro ben diverse. E che il motivo tecnico che aveva reso necessario sancire la ripetizione del processo non era da ricercare nei jeans (non in quelli della presunta vittima ma neppure in quelli dei giudici, giudici perlopiù donna in quell’occasione), bensì nei vizi di forma riscontrati in alcuni passaggi della sentenza di Appello.  Sic et simpliciter: nessuna assoluzione, nessuna condanna, processo da rifare. La Cassazione, tra l’altro, sottolineava la mancanza di adeguate motivazioni per il verdetto cui era giunta la Corte d’Appello. E qui, per mala sorte di noi tutti, tra i diversi e assai sostanziali aspetti che la Cassazione stimmatizzava in quanto non debitamente considerati dalla Corte d’Appello nello stendere la propria sentenza, faceva sventuratamente capolino, quasi en passant, l’osservazione che la presunta vittima al momento del presunto reato indossasse i jeans (in quel mentre ella stava al volante dell’auto della scuola guida di cui il suo presunto assalitore, seduto al suo fianco, era istruttore). Non voglio entrare nel merito dell’appropriatezza o meno di questa improvvida osservazione avanzata della Cassazione , che e’ stata poi ripetutamente sconfessata nel corso degli anni successivi da più (e autorevolissime) parti. Quello che mi preme e’ il sottolineare che non fosse questa la motivazione dell’annullamento, e che ineludibilmente non ci fosse traccia alcuna di assoluzione. Ma tanto bastò: a quei jeans si aggrapparono subito tutti, demagoghi, femministi, radical chic e scagliapietristi, al punto che pochi giorni dopo l’annullamento della sentenza d’Appello i giudici e le giudichesse della stessa Cassazione, ricondotti a ragione dalla tumultuosa vox populi oltre che, presumibilmente, da qualcheduno ad essi vicino e di loro assai meglio politicamente consigliato, si cosparsero il capo di cenere e ritrattarono pubblicamente il famigerato argomento dei jeans (ma non certo l’annullamento per vizio di forma del processo, che si dovette quindi giustamente rifare). Solo molti mesi più tardi, a fattaccio (mediatico)  profondamente seppellito nel dimenticatoio collettivo, si arrivò alla sentenza di condanna in Appello per l’imputato, questa volta - fortunatamente - in un’aula di tribunale. Insomma, il caso di Michele Castaldo da cui sono partito e’ triste non certo per la condanna a “soli” 16 anni in gabbia (un'eternità, che con l’attuale sensibilità animalista non ci si sognerebbe di infliggere nemmeno al più molesto degli animali; tanto più se si considerino le disumane condizioni delle carceri italiane, per il solo sovraffollamento delle quali l’Italia e’ stata oggetto di procedure di infrazione europee e di condanne da parte di diverse associazioni umanitarie internazionali) e non solo per l’epilogo tragico (il tentato suicidio di Castaldo in carcere pochi giorni dopo la condanna), bensì perché sta ancora una volta lì a ribadire che non ci si informa leggendo solo i titoli dei giornali, men che meno basandosi su di essi si giudicano le persone. E che non dovremmo piu’ essere costretti, nel terzo millennio,  ad assistere a processi fatti sui media, in Transatlantico, o dal barbiere.  Perché il giustizialismo scellerato degli scagliapietristi e’ quanto di più lontano dal rispetto dei diritti dei cittadini e, in estrema analisi, proprio dalla giustizia, quella giustizia che gli stessi credono di voler asserire ma che, ai loro occhi, e’ giusta solo se si traduce in una condanna, meglio se al massimo della pena.

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