Tomaso Albinoni nacque a Venezia nel 1671 e ivi, nel 1751, morì; e fu per lui la prima volta. In vita viaggiò pochissimo, e pochissimo si espose al pubblico: ambo le cose non erano nelle sue corde, e l'essere membro di una famiglia assai facoltosa non lo indusse a farle per forza. Nell'intestazione della sua opera prima (12 Sonate a tre, del 1694) si autodefinì infatti "musico di violino dilettante veneto", laddove il termine "dilettante" designava, nell'accezione allora in voga, non già un cialtrone (come oggi si intenderebbe) bensì quanti facesse per puro diletto. Talentuoso nel canto, oltre che nello strumento, si dedicò soprattutto alla composizione. Così come sarebbe accaduto un secolo più tardi per Rossini, la conoscenza in prima persona della voce umana gli rese facile il riuscire eccellentemente nell'opera in musica, oltre che nelle cantate e nei lirismi di cui sono ricche le sue pagine strumentali. Per i teatri di Venezia scrisse almeno una cinquantina di opere, come testimoniato dai libretti fino a noi giunti, anche se egli ebbe modo di riferire, probabilmente esagerando un po' per eccesso, di averne scritte non meno di ottanta. Le messe in scena conobbero un buon successo e rimasero in repertorio per diversi anni, per finire poi con l'essere obliate nel corso del Diciottesimo secolo. Oggi Tomaso Albinoni è notissimo soprattutto per le sue sonate e i suoi concerti per solo e archi, e tanto gli basta per essere universalmente annoverato tra i più illustri esponenti del Barocco musicale italiano, il che è tutto dire.
Egli morì una seconda volta in un momento imprecisato tra il 13 e il 15 febbraio del 1945 a Dresda, la Firenze dell'Elba, urbe d’arte e di cultura amatissima dagli intellettuali della prima metà del Novecento. I manoscritti in copia unica di molte composizioni di Albinoni, tra cui un numero imprecisato delle sue opere, erano infatti custoditi in quei tragici giorni presso la Biblioteca di Stato di quella città. Seguendo le medesime sorti toccate a numerosi altri manoscritti antichi, essi andarono irrimediabilmente perduti a seguito del dissennato bombardamento anglo-americano che ridusse inutilmente in macerie il centro storico di Dresda, ivi inclusa la Staatsbibliothek che venne dilaniata dell'atroce tempesta di fuoco che ne conseguì. Di quel bombardamento, che da più parti venne in seguito battezzato "crimine di guerra" e che riecheggia nelle pagine del mirabile Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut, caddero vittime a decine di migliaia i civili, i profughi, i prigionieri di guerra. E con essi, accessoriamente, un pezzo significativo del nostro Patrimonio collettivo, compresa ogni residua possibilità di poter giammai giore dell'ascolto di tanta parte del repertorio operistico albinoniano.
Rallegra, dunque, che la Fenice di Venezia abbia da qualche tempo deciso di resuscitare Albinoni, morto due volte, mettendo in scena sul palco del bellissimo teatro Malibran le nuove e preziose edizioni critiche delle sue poche opere superstiti. A un anno circa di distanza dalla Zenobia, regina de' Palmireni, il marzo scorso è stata infatti proposta al pubblico la trascrizione di Franco Rossi della Statira. Per entrambe le opere si è trattato delle prime rappresentazioni in tempi moderni, occasioni uniche per poter finalmente ascoltare due magistrali rarità musicali di cui, oltretutto, non esiste ad oggi alcuna registrazione. Peccato che, nel mondo intero, a beneficiare di queste straordinarie opportunità siano stati solo i fortunati spettatori degli allestimenti teatrali suddetti. Quanti non abbiano avuto la buona ventura di potersi recare al Malibran in occasione delle recite uniche andate pubblicamente in scena, non hanno potuto (né potranno) ammirare e introiettare il fulgore di queste perle ascose. Degli spettacoli veneziani non risulta, infatti, siano state fatte trasmissioni radio-televisive né, tantomeno, siano state prodotte edizioni discografiche. La Zenobia e la Statira sono tornate a essere lettera morta, celandosi nuovamente al mondo e compiendo così, tanto involontariamente quanto paradossalmente, l'atto estremo di far morire lo sventurato Albinoni per una terza volta. Si obietterà che quanti agognasse ascoltare le opere in questione avrebbe dovuto attrezzarsi per andare al Malibran. Ma in quanti, realisticamente, hanno o avrebbero potuto farlo? Ancora, come potrebbe l'assistere ad una singola recita esaurire l'intera, poliedrica esperienza conoscitiva insita nell'accostarsi ad un'opera ancora ignota? Infine, che dire delle (e alle) generazioni di musicologi e melomani a venire?
Quanto accaduto a Venezia (frutto, beninteso, di un'iniziativa artistica ammirevole ed encomiabile) non rappresenta certo una novità assoluta per i nostri teatri. Ogni qualvolta ciò accade io non posso però esimermi dall'avvertire una profonda afflizione, accompagnata non di rado da una latente frustrazione e financo da una repente stizza, per quel frammento così significativo e insostituibile di Patrimonio collettivo di cui ci ritroviamo orbati. Eppure basterebbe poco per prevenire tale deprivazione, un atto ponderato di "buon governo" sarebbe difatti sufficiente. Il presupposto di un tale atto è già per vero in essere, sostanziato dall'attribuzione da parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali di una quota, pur parca, del Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) alle Fondazioni lirico-sinfoniche, fondo alla cui sussistenza tutti noi contribuenti concorriamo. Faccio ancora una volta riferimento, a titolo illustrativo, al caso specifico della Fenice. Di detta quota essa beneficia non poco: per esempio, secondo i dati riportati dalla Corte dei Conti, nel 2016 il contributo statale superava il 50% dei ricavi complessivi della Fondazione, cui si aggiungevano i contributi della Regione Veneto e, soprattutto, quelli del Comune di Venezia. Conseguentemente, l'auspicato atto di buon governo potrebbe tradursi nel vincolare, da parte dello Stato, l'erogazione del FUS a due semplici adempimenti che, nel pubblico interesse, preverrebbero il ripetersi di quanto ho mestamente constatato a proposito della Zenobia e della Statira. Questi adempimenti coinvolgerebbero tanto le Fondazioni lirico-sinfoniche quanto quella specie di mastodonte in cattività che è la compagnia radiotelevisiva "di Stato". Lascio di seguito alla fantasia del lettore l'ingrato compito di immaginare (tra le tante, plausibili e davvero minimali alternative) gli specifici dettagli attuativi e le minuzie relative alle rispettive coperture.
Adempimento 1: di tutte le opere o altre composizioni musicali messe in cartellone dalle Fondazioni e che fossero co-finanziate da una quota del FUS, qualora non soggette a copyright e di cui non esistesse ancora incisione alcuna, alla RAI (il celeberrimo "servizio pubblico") verrebbe conferito mandato di trasmettere radiofonicamente (in diretta o in differita nei giorni successivi all'evento, anche attraverso i propri siti web) una recita o, rispettivamente, un concerto. I costi tecnici di trasmissione, come pure gli eventuali conseguenti aggravi sulle spese di produzione dell'opera o del concerto, sarebbero a carico della RAI. Per la Radiotelevisione Italiana S.p.A. essi rappresenterebbero di fatto una frazione quasi trascurabile del proprio fatturato (tra canone a altri contributi pubblici la RAI nel solo 2019 percepirà quasi due miliardi di euro).
Adempimento 2: alle Fondazioni lirico-sinfoniche verrebbe richiesto di collaborare con le Edizioni Musicali di Rai Com (o con altri soggetti interessati) alla produzione di una prima edizione discografica live di dette opere e composizioni musicali inedite. Per contenere i costi di produzione ci si potrebbe tranquillamente limitare ad una qualità audio delle riprese sonore allineata (o anche inferiore, all'occorrenza: non è certo questo il punto) a quella offerta da Radio 3 in occasione di quelle prime e di quei concerti che essa, meritoriamente, già radiodiffonde. Il documento sonoro da riversare su disco sarebbe in ogni caso già disponibile una volta assolto l'Adempimento 1, e i costi aggiuntivi sarebbero comunque prevalentemente a carico della RAI e del suo gruppo, o di chi per essa. Il disco così prodotto verrebbe iscritto al catalogo dell'etichetta discografica coinvolta e messo in vendita ad un prezzo congruo, restituendo finalmente all'umanità un frammento della sua stessa storia e del suo legittimo Patrimonio. E facendo un giorno rinascere Tomaso Albinoni, per un'ultima volta, reso immortale alfin.
Egli morì una seconda volta in un momento imprecisato tra il 13 e il 15 febbraio del 1945 a Dresda, la Firenze dell'Elba, urbe d’arte e di cultura amatissima dagli intellettuali della prima metà del Novecento. I manoscritti in copia unica di molte composizioni di Albinoni, tra cui un numero imprecisato delle sue opere, erano infatti custoditi in quei tragici giorni presso la Biblioteca di Stato di quella città. Seguendo le medesime sorti toccate a numerosi altri manoscritti antichi, essi andarono irrimediabilmente perduti a seguito del dissennato bombardamento anglo-americano che ridusse inutilmente in macerie il centro storico di Dresda, ivi inclusa la Staatsbibliothek che venne dilaniata dell'atroce tempesta di fuoco che ne conseguì. Di quel bombardamento, che da più parti venne in seguito battezzato "crimine di guerra" e che riecheggia nelle pagine del mirabile Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut, caddero vittime a decine di migliaia i civili, i profughi, i prigionieri di guerra. E con essi, accessoriamente, un pezzo significativo del nostro Patrimonio collettivo, compresa ogni residua possibilità di poter giammai giore dell'ascolto di tanta parte del repertorio operistico albinoniano.
Rallegra, dunque, che la Fenice di Venezia abbia da qualche tempo deciso di resuscitare Albinoni, morto due volte, mettendo in scena sul palco del bellissimo teatro Malibran le nuove e preziose edizioni critiche delle sue poche opere superstiti. A un anno circa di distanza dalla Zenobia, regina de' Palmireni, il marzo scorso è stata infatti proposta al pubblico la trascrizione di Franco Rossi della Statira. Per entrambe le opere si è trattato delle prime rappresentazioni in tempi moderni, occasioni uniche per poter finalmente ascoltare due magistrali rarità musicali di cui, oltretutto, non esiste ad oggi alcuna registrazione. Peccato che, nel mondo intero, a beneficiare di queste straordinarie opportunità siano stati solo i fortunati spettatori degli allestimenti teatrali suddetti. Quanti non abbiano avuto la buona ventura di potersi recare al Malibran in occasione delle recite uniche andate pubblicamente in scena, non hanno potuto (né potranno) ammirare e introiettare il fulgore di queste perle ascose. Degli spettacoli veneziani non risulta, infatti, siano state fatte trasmissioni radio-televisive né, tantomeno, siano state prodotte edizioni discografiche. La Zenobia e la Statira sono tornate a essere lettera morta, celandosi nuovamente al mondo e compiendo così, tanto involontariamente quanto paradossalmente, l'atto estremo di far morire lo sventurato Albinoni per una terza volta. Si obietterà che quanti agognasse ascoltare le opere in questione avrebbe dovuto attrezzarsi per andare al Malibran. Ma in quanti, realisticamente, hanno o avrebbero potuto farlo? Ancora, come potrebbe l'assistere ad una singola recita esaurire l'intera, poliedrica esperienza conoscitiva insita nell'accostarsi ad un'opera ancora ignota? Infine, che dire delle (e alle) generazioni di musicologi e melomani a venire?
Quanto accaduto a Venezia (frutto, beninteso, di un'iniziativa artistica ammirevole ed encomiabile) non rappresenta certo una novità assoluta per i nostri teatri. Ogni qualvolta ciò accade io non posso però esimermi dall'avvertire una profonda afflizione, accompagnata non di rado da una latente frustrazione e financo da una repente stizza, per quel frammento così significativo e insostituibile di Patrimonio collettivo di cui ci ritroviamo orbati. Eppure basterebbe poco per prevenire tale deprivazione, un atto ponderato di "buon governo" sarebbe difatti sufficiente. Il presupposto di un tale atto è già per vero in essere, sostanziato dall'attribuzione da parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali di una quota, pur parca, del Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) alle Fondazioni lirico-sinfoniche, fondo alla cui sussistenza tutti noi contribuenti concorriamo. Faccio ancora una volta riferimento, a titolo illustrativo, al caso specifico della Fenice. Di detta quota essa beneficia non poco: per esempio, secondo i dati riportati dalla Corte dei Conti, nel 2016 il contributo statale superava il 50% dei ricavi complessivi della Fondazione, cui si aggiungevano i contributi della Regione Veneto e, soprattutto, quelli del Comune di Venezia. Conseguentemente, l'auspicato atto di buon governo potrebbe tradursi nel vincolare, da parte dello Stato, l'erogazione del FUS a due semplici adempimenti che, nel pubblico interesse, preverrebbero il ripetersi di quanto ho mestamente constatato a proposito della Zenobia e della Statira. Questi adempimenti coinvolgerebbero tanto le Fondazioni lirico-sinfoniche quanto quella specie di mastodonte in cattività che è la compagnia radiotelevisiva "di Stato". Lascio di seguito alla fantasia del lettore l'ingrato compito di immaginare (tra le tante, plausibili e davvero minimali alternative) gli specifici dettagli attuativi e le minuzie relative alle rispettive coperture.
Adempimento 1: di tutte le opere o altre composizioni musicali messe in cartellone dalle Fondazioni e che fossero co-finanziate da una quota del FUS, qualora non soggette a copyright e di cui non esistesse ancora incisione alcuna, alla RAI (il celeberrimo "servizio pubblico") verrebbe conferito mandato di trasmettere radiofonicamente (in diretta o in differita nei giorni successivi all'evento, anche attraverso i propri siti web) una recita o, rispettivamente, un concerto. I costi tecnici di trasmissione, come pure gli eventuali conseguenti aggravi sulle spese di produzione dell'opera o del concerto, sarebbero a carico della RAI. Per la Radiotelevisione Italiana S.p.A. essi rappresenterebbero di fatto una frazione quasi trascurabile del proprio fatturato (tra canone a altri contributi pubblici la RAI nel solo 2019 percepirà quasi due miliardi di euro).
Adempimento 2: alle Fondazioni lirico-sinfoniche verrebbe richiesto di collaborare con le Edizioni Musicali di Rai Com (o con altri soggetti interessati) alla produzione di una prima edizione discografica live di dette opere e composizioni musicali inedite. Per contenere i costi di produzione ci si potrebbe tranquillamente limitare ad una qualità audio delle riprese sonore allineata (o anche inferiore, all'occorrenza: non è certo questo il punto) a quella offerta da Radio 3 in occasione di quelle prime e di quei concerti che essa, meritoriamente, già radiodiffonde. Il documento sonoro da riversare su disco sarebbe in ogni caso già disponibile una volta assolto l'Adempimento 1, e i costi aggiuntivi sarebbero comunque prevalentemente a carico della RAI e del suo gruppo, o di chi per essa. Il disco così prodotto verrebbe iscritto al catalogo dell'etichetta discografica coinvolta e messo in vendita ad un prezzo congruo, restituendo finalmente all'umanità un frammento della sua stessa storia e del suo legittimo Patrimonio. E facendo un giorno rinascere Tomaso Albinoni, per un'ultima volta, reso immortale alfin.