Ero allora giovane e mi ero da poco trasferito in Toscana. Vivevo in un borgo pittoresco e isolato nell’incantevole campagna senese, a una trentina di chilometri dal capoluogo dove lavoravo. All’epoca guidavo ancora, ed ero solito percorrere il tragitto sinuoso verso la città, tra le colline cangianti, ascoltando un qualche CD. Ricordo che, come capita a volte, in quel periodo non mi riuscisse di trovare stimoli musicali intensi come quelli che da sempre ero abituato a cercare. Fu così che, dapprima senza particolare entusiasmo (e dichiaratamente pro tempore), presi a cimentarmi con la radio, un mezzo che non avevo mai particolarmente amato. Mi scoprii subito lestissimo nello scansare le stazioni commerciali che, troppo spesso cloni inservibili l’una dell’altra, sovraffollavano - allora come oggi - le medie frequenze. E fu ancora così, per caso, che mi imbattei in una emittente che non avevo mai potuto ascoltare prima in vita mia, perché in Trentino essa eccezionalmente non arrivava, né a tutt’oggi arriva; né tantomeno la si poteva in quegli anni ascoltare su Internet, a differenza di quanto accade attualmente: si chiamava Radio Radicale. A quell’ora del mattino in cui procedevo quotidianamente in coda ad una piccola colonna di veicoli lenti dei quali la tortuosa Provinciale di rado consentiva il sorpasso, andava in onda quella che da subito mi apparve come la più bella e completa rassegna stampa che mai si potesse desiderare, Stampa e Regime. E a condurla c’era un giornalista dal piacevole accento romanesco la cui voce, vergata dalle fitte e inquietanti stimmate del fumo, mi sedusse da subito. Perché era dalla voce di quel giornalista che, prima di tutto il resto, si restava ammaliati, una malia destinata a non sciogliersi più. Al suono di quella voce iniziarono ad emergere, giorno dopo giorno, le trame impalpabili della politica, della società e della storia celate sotto alla caotica svariatezza della carta stampata nazionale, tutta quanta, fatta altrimenti di pezzi eterogenei apparentemente scorrelati, quasi ognor faziosi, dispersi magari negli anfratti remoti della foliazione più avanzata dei quotidiani. Perché dietro quella voce accattivante - e sopra di essa - c’era una mente che, come avrei appreso al trascorrere dei mesi e degli anni, era espressione in sommo grado di lucidità, di intelligenza tanto analitica quanto sintetica, di straordinarie coscienza storica e memoria della storia repubblicana, di una genuina curiosità per il diverso e, soprattutto, di una radicale abdicazione ad ogni posizione ideologica o altrimenti pregiudizievole. E ancora, gli orditi così lucidamente intessuti e dispiegati da quella voce mi affabulavano anche in virtù di una teatralità che quello stesso giornalista, anni più tardi, avrebbe scherzosamente descritto come un suo modo di fare cabaret. Una teatralità costruita prevalentemente attorno al ricorso frequente all’ironia più pacata e sottile, una teatralità che si manifestava attraverso un’incontenibile teoria di impareggiabili modulazioni prosodiche della voce narrante, prosodia che in sé sembrava dire già tutto senza che servisse aggiungere nulla. Come mi veniva restituito trasfigurato il mondo raccontato da quella voce, rispetto a quello plagiato cui mi avevano accostumato fino ad allora i grandi quotidiani, i telegiornali, i talk show di approfondimento politico, inclusi quelli “giusti”.
Dopo Stampa e Regime sarebbero arrivate le leggendarie conversazioni domenicali con Marco Pannella, e poi tutto quanto. Ricordo la prima volta che di quel giornalista vidi il reale sembiante, in una puntata di Otto e Mezzo su La7 di cui era ospite in studio, sembiante che mi apparve così sorprendentemente diverso da quello dell’uomo glabro, calvo e grassoccio quale, al solo sentirne la voce, l’avevo sempre bizzarramente immaginato. A quella voce non potrò mai esprimere sufficiente gratitudine per quanto essa abbia contribuito, nei giorni e nei decenni a venire, a fare crescere la mia coscienza politica e civile. Posso solo confessare che dal momento del drammatico annuncio dato da Alessio Falconio nel pomeriggio di quel maledetto 17 aprile io ho gli occhi che, a intervalli irregolari, tornano a gonfiarsi di lacrime. E che la mia vita, come quella di tanti in questo Paese, magari a loro insaputa, non sarà mai più la stessa. Povera Italietta ignara e irriconoscente, non ti rendi conto di quanto, per sempre, hai perduto.
Dopo Stampa e Regime sarebbero arrivate le leggendarie conversazioni domenicali con Marco Pannella, e poi tutto quanto. Ricordo la prima volta che di quel giornalista vidi il reale sembiante, in una puntata di Otto e Mezzo su La7 di cui era ospite in studio, sembiante che mi apparve così sorprendentemente diverso da quello dell’uomo glabro, calvo e grassoccio quale, al solo sentirne la voce, l’avevo sempre bizzarramente immaginato. A quella voce non potrò mai esprimere sufficiente gratitudine per quanto essa abbia contribuito, nei giorni e nei decenni a venire, a fare crescere la mia coscienza politica e civile. Posso solo confessare che dal momento del drammatico annuncio dato da Alessio Falconio nel pomeriggio di quel maledetto 17 aprile io ho gli occhi che, a intervalli irregolari, tornano a gonfiarsi di lacrime. E che la mia vita, come quella di tanti in questo Paese, magari a loro insaputa, non sarà mai più la stessa. Povera Italietta ignara e irriconoscente, non ti rendi conto di quanto, per sempre, hai perduto.