Evidenziandone le lacune fondamentali e apportando alcuni elementi ulteriori di riflessione, cercherò ora di dimostrare l’infondatezza del pensiero testé citato, pensiero che a tutta prima potrebbe apparire persino ragionevole ad un ipotetico visitatore del Belpaese appena giunto in Italia da molto, molto lontano. Lasciamo pure stare la chiusa sbeffeggiante, dall’apparente tenore selvaggiamente liberista, che davvero non si confà ad una testata radiofonica che tanta rilevanza mediatica e civile ha avuto nell’ultimo mezzo secolo d’Italia, una testata che tra l’altro dà oggi lavoro a più di cento persone tra personale stabile e collaboratori esterni. Lasciamo parimenti stare l’altro aspetto di metodo, più subdolo, quel moraleggiante ammonire che chi di liberismo ferisce di liberismo perisce (monito implicitamente anti-liberista, ergo in contraddizione con la succitata chiusa). Concentriamoci piuttosto sul merito, a partire senza ulteriori indugi dall’elefante nella stanza: il concetto di “servizio pubblico”, che pare essere al centro di tutte le incomprensioni.
“Servizio pubblico”, atto I. La metafora della clinica convenzionata
Mi avvarrò di una metafora, che per l’occasione chiamerò la metafora della clinica convenzionata. La si può formulare, più o meno, nei seguenti termini: esiste un Paese con un sistema sanitario pubblico che, pur costando ogni anno ai suoi contribuenti una cifra a dodici zeri, non riesce - per vari, articolati, lungamente consolidati motivi - a garantire talune prestazioni in tempi accettabili presso le patrie strutture pubbliche a quanti ne necessitino e siano in possesso di regolare richiesta medica. Ferma restando la possibilità per chi lo desideri e ne abbia le risorse di ricorrere a strutture private, in patria o all’estero, lo Stato in quel Paese mette comunque a disposizione, laddove possibile, una convenzione di servizio con cliniche private qualificate e accreditate ad erogare analoghe prestazioni ai richiedenti. La convenzione tra lo Stato e dette strutture fa sì che il cittadino che ne usufruisca paghi il medesimo ticket (o semplicemente nulla, se esente) che sarebbe tenuto a corrispondere a parziale contributo dei costi della prestazione in una clinica pubblica. Sulla base di precisi accordi contrattuali con lo Stato, la clinica privata incassa il contributo in regime di convenzione nella forma di un ammontare globale predefinito (in funzione di tetti di spesa concordati che tengono statisticamente conto dei costi standard rilevati su cliniche-campione) garantendo, in cambio, l’erogazione di una corrispondente quantità di prestazioni sanitarie (e rinunciando, magari, a svolgere in quel lasso di tempo altre attività lucrative, ad esempio nella forma di esami privatistici tout court). Ecco: nella metafora quel Paese è l’Italia, quella clinica convenzionata è Radio Radicale, quella convenzione riguarda l’erogazione di una ben precisa prestazione, ovvero la trasmissione (in diretta e senza pubblicità né messaggi aventi contenuto politico, a partire da 30 minuti prima e fino a 30 minuti dopo) di almeno il 60% delle sedute della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, e quel paziente cui è stata prescritta una prestazione sanitaria è il cittadino che voglia esercitare il proprio diritto alla conoscenza. Anzi, la metafora va pure stretta alla Radio e al suo ascoltatore, ché mentre il paziente ha - se il suo patrimonio glielo consente - la possibilità di curarsi privatamente o all’estero, nessun privato o media straniero trasmette invece i lavori delle Camere. Questo è, in primis, il servizio pubblico offerto in convenzione da Radio Radicale. Servizio che essa offre, essendo ad esso qualificata e accreditata (come appurato dalla gara originariamente tenutasi per assegnare il servizio) sin dal lontano 1994, senza soluzione di continuità, in assenza di strutture pubbliche in grado di espletare allo stesso servizio. Dovrebbe infatti farsene carico la RAI, quella stessa RAI che ogni anno ci costa di canone quasi due miliardi e che ha appena ricevuto dal nostro beneamato governo un regalo di ulteriori 80 milioni prelevati dalle imposte versate da noi contribuenti (la convenzione con Radio Radicale costa circa 10 milioni all’anno, l’ammontare “globale predefinito in funzione di tetti di spesa” della metafora, con cui la Radio realizza ogni anno il pareggio di bilancio), RAI che però non solo non è finora stata in grado di farlo ma non si è mai realmente dimostrata interessata ad accollarselo. Chissà mai perché: forse perché ciò comporterebbe il dedicare la parte preponderante di un palinsesto ad un programma destinato ad avere, invariabilmente, uno share risibile? Forse perché tale share (anche ammesso che surrealisticamente si andasse verso una diretta dalle Camere intervallata da spot pubblicitari) risulterebbe assai poco appetibile per i potenziali inserzionisti pubblicitari, al punto da annullarne di fatto il valore commerciale? O forse, come hanno insinuato alcuni maligni (tra i quali il compianto Massimo Bordin), perché proprio non si vuole che i cittadini possano sentire davvero quello che accade dentro al Parlamento, a come esso sia svilito e ridotto a passacarte degli estemporanei ghiribizzi partoriti nottetempo dalle fervide menti di quella nobile rosa di statisti gialloverdevestiti che ci “governa”? Non sta a me dirlo, certo è che da un quarto di secolo Radio Radicale si è accollata l’onore e l’onere di espletare tale servizio e per questo, solo per questo, ha ricevuto contestualmente un contributo in convenzione. Dal 1994, l’anno della prima gara di assegnazione del servizio, Radio Radicale ha sempre chiesto una nuova gara che portasse auspicabilmente alla stabilizzazione del particolare rapporto in essere tra lo Stato e la Radio, non trovando però sponda nei diversi governi che si sono alternati da allora alla guida del Paese: essi hanno comunque sempre riconosciuto l'essenzialità del servizio pubblico reso, ed hanno regolarmente prorogato la convenzione originaria. Fino ad oggi, anno in cui il contributo è stato dimezzato per il 2019 e azzerato a partire dall’anno successivo. Con l’effetto che Radio Radicale non potrà andare avanti, a regime, oltre la fine della primavera in corso.
Questo, cari sigg.ri Burattini e Travaglio, è il principale motivo per cui, a differenza de Il Fatto, Radio Radicale è un servizio pubblico nel senso congruo del termine, servizio irrinunciabile per i cittadini (fino a che altri non si dimostri in grado di sostituirla). Ritengo infatti che sarebbe da beceri il controargomentare che i servizi offerti in convenzione dalle cliniche private siano davvero essenziali ma le dirette dei lavori parlamentari no: a questo proposito, credo sia sufficiente ripensare all’adagio einaudiano “conoscere per deliberare”, e più non dimandare.
“Servizio pubblico”, atto II. L’archivio storico di interesse nazionale
Ma non finisce qui: nel corso dei decenni Radio Radicale ha costruito, minuto dopo minuto, quello che oggi è il più completo archivio della politica e della storia contemporanea d’Italia il quale, oltre alle registrazioni delle sedute parlamentari, comprende i lavori delle Commissioni, migliaia di ore di congressi di tutti i partiti, le udienze di interi processi penali di interesse pubblico, le voci di autentiche schiere di esponenti politici di ogni colore che negli anni hanno potuto esprimere liberamente e per intero le proprie posizioni, e ancora le rassegne quotidiane dell’intera stampa nazionale e di quella estera. Questo archivio ha ricevuto ufficialmente lo status di Archivio storico di interesse nazionale. Già nel 1993 esso fu infatti dichiarato “di notevole interesse storico” dalla Soprintendenza Archivistica del Lazio, e fu censito nel volume "Fonti orali: censimento degli istituti di conservazione" edito dall’allora Ministero per i beni culturali e ambientali. L’archivio si arricchisce costantemente e può essere consultato da chiunque sul sito web della Radio con le stesse semplicità ed efficienza proprie di un comune motore di ricerca.
Di altri e diversificati falli dei burattiniani
Liberatici (per così dire) dell’elefante, possiamo adesso passare ad evidenziare quelli che sono gli altri aspetti fallaci della lettera del Burattini (e di quant’altri egli abbia involontariamente fatto le veci). Innanzitutto, appare evidente che essa ruoti attorno all’infondato assunto che dei radicali (con il loro “neoliberismo”) e di Radio Radicale si possa parlare come fossero un tutt’uno. Non è così. Per quanto la radio sia da decenni il primo luogo quotidiano di incontro tra i “radicali” (chi sono costoro?), essa ha sempre mantenuto una marcata autonomia dalla propria associazione politica di riferimento, tradottasi da un lato nell’incontestabile pluralità di voci e opinioni che costantemente essa ha consentito di conoscere ai propri ascoltatori, di qualunque appartenenza politica e culturale essi fossero, e dall’altro nelle memorabili liti in diretta tra lo stesso Marco Pannella e l’allora direttore dell’emittente, Massimo Bordin. Nata come radio privata negli anni ‘70 del Novecento, solo nel 1986 la radio fu di fatto costretta a diventare “organo di partito” dal Parlamento italiano: tale condizione fu infatti posta, onde prevenirne la chiusura, per poterla finanziare alla stregua dell’editoria di partito. Pannella insistette nel girare alla Radio la quota del finanziamento pubblico ai partiti destinata ai Radicali (contro cui i radicali medesimi non smisero mai di lottare, arrivando indarno alla plebiscitaria affermazione referendaria del 1993) con l’obiettivo di restituirne ai cittadini il controvalore informativo attraverso un pubblico servizio di accesso alla conoscenza. Oggi essa si profila come un’impresa radiofonica privata che svolge attività di interesse generale ai sensi della legge 7 agosto 1990, n. 230. Il riferimento al partito in fondo al messaggio che chiude le trasmissioni in convenzione e che recita “riprendono le trasmissioni di Radio Radicale, organo della Lista Marco Pannella” suona ormai quasi come un vezzo, una sorta di tributo alla memoria storica di un passato sempre più remoto, se si considera che non solo non esiste più Marco Pannella, ma soprattutto che la Lista a lui intitolata è oggi una associazione politica nata dallo scioglimento del Partito Radicale dopo il congresso del 1989, congresso in cui venne deciso di non presentarsi più come lista ad alcuna successiva tornata elettorale di qualsivoglia natura. Per dirla con un eufemismo, non siamo esattamente di fronte a quanto comunemente si intenda per “organo di partito”.
Ancora, il Burattini vuole indicare proprio nel liberismo che da sempre è uno dei caratteri salienti del pensiero politico radicale l’altare al quale ora Radio Radicale debba immolarsi per tenere fede a quello stesso pensiero. Ribadendo quanto sopra osservato sulla necessaria distinzione tra radicali da un lato ed emittente dall’altro, l’aspetto che a questo proposito mi preme sottolineare è che - come Marco Taradash ha avuto recentemente modo di rimarcare - il liberismo non è in sé selvaggio, come sembrano invece ritenere molti suoi detrattori. Anche nella concezione liberista l’erogazione di quei servizi pubblici che per loro stessa natura non possono autofinanziarsi ma che sono nondimeno imprescindibili, non può e non deve essere rimessa alle ordinarie logiche di mercato, e deve dunque essere sostenuta dallo Stato. Da questo punto di vista sbaglia due volte il Burattini anche quando insiste sull'opportunità di emulare Il Fatto Quotidiano nel suo percorso verso l’emancipazione finanziaria: un giornale, infatti, ha acquirenti e abbonati, una radio no; esso ha inserzionisti pubblicitari, Radio Radicale no (le trasmissioni in convenzione, in particolare, non possono proprio averne). Veramente qualcuno pensa che possa esserci un investitore privato interessato a fare di dirette ininterrotte da Camere e Tribunali un’impresa redditizia?
E infine: quanto tempo ci vorrebbe, anche solo in via ipotetica, per portare materialmente sul libero mercato una emittente come Radio Radicale, e quanto poi per consentire alla RAI di assorbirne la missione e l’archivio storico? Temo che chi lo caldeggi come fosse una soluzione realistica, praticabile addirittura da un mese all’altro, debba essere uno sprovveduto o un furbacchione. Il paradosso è solo apparente e parrebbe riguardare, naturalmente, anche Vito Crimi, il gerarca minore. Con buona pace degli oltre cento lavoratori della Radio, tra redattori, tecnici e collaboratori esterni, che potrebbero trovarsi disoccupati in capo a poche settimane, cosa questa che non sembra preoccupare minimamente il nostro Ministro del lavoro e delle politiche sociali (Luigi Di Maio, per chi non se ne fosse accorto) il quale, per contrappasso, è invece impegnatissimo a buttare sul tavolo altri soldi dei contribuenti (cifre a nove zeri, bellezza!) per l’ennesimo salvataggio a perdere di Alitalia, un’azienda invariabilmente inadeguata alle leggi del libero mercato ma che, spiace dirlo, non offre alcun servizio pubblico. Anzi.