Preambolo

Il post vero e proprio
Pur avendo la mente costantemente rivolta ai più profondi abissi intergalattici, quelli dello Event Horizon Telescope (EHT) non sospettano nemmeno remotamente da quali abissi (finanziari) le loro scoperte cosmologiche abbiano distratto l’attenzione dell’opinione pubblica belpaesana (già tendenzialmente distratta di suo), attenzione che, se non fosse per il loro benedetto buco nero, sarebbe magari tormentosamente alle prese con un mal di pancia da Documento di Economia e Finanza (DEF).
Partiamo come è ormai allegra consuetudine dall’ANSA, le cui permeanti miserie sono in fondo lo specchio di questa Italietta avvizzita in cui ci capita di vivere: “Ecco la foto del secolo, è la prima di un buco nero”, ha titolato ansa.it (la foto del secolo è durata meno di ventiquattr’ore: già ieri la stessa testata, per non smentirsi, ha infatti pubblicato la foto della bimba honduregna in lacrime al confine tra USA e Messico, titolando “Foto dell’anno”, sic. Tutto vero, come sempre). Il fotoritratto del buco nero supermassiccio situato a circa 55 milioni di anni luce dalla Terra nel centro della galassia supergigante M87, nella costellazione della Vergine, ha fatto il giro del mondo mediatico e di quello social con circa un giorno di ritardo rispetto alla sua pubblicazione nella letteratura scientifica, avvenuta nella forma di special issue monografica del giornale The Astrophysical Journal Letters (volume 875, numero 1, 10 aprile 2019). Di “foto del secolo” ha parlato anche la Repubblica. Il Corriere nel titolo ci ha messo addirittura più enfasi, scrivendo “ecco la prima foto reale di un buco nero” (reale, si badi) e parlando poi di “nuova epoca della ricerca”. “Fotografato per la prima volta un buco nero” fa eco, a sua volta, la Stampa, e via e via. Leggere di scienza sui giornali italiani sarebbe sempre un autentico spasso, se non fosse per noi scienziati un insostenibile tormento. Non si adduca come scusa il fatto che, non avendo il lettore-tipo specifiche competenze tecniche, sarebbe giustificato sostituire i risultati scientifici propriamente detti con narrazioni più o meno fantastiche. I “giornalisti” “scientifici” free-lance nostrani potrebbero almeno premurarsi di far revisionare i propri fantastici elaborati da qualche addetto ai lavori (o meglio, dovrebbero forse pensarci i comitati editoriali delle rispettive testate). Ancora meglio, si potrebbe fare come ha fatto il Washington Post (ma quando mai!) che, tornando a bomba, ha scelto di far scrivere del buco nero nientemeno che Jenny Greene, professoressa di astrofisica alla Princeton University. Washington Post che non a caso (pur cadendo qui anch’esso in fallo) ha mitigato i facili entusiasmi titolando “The black hole photo was no big surprise to scientists”, a sottolineare la natura più mediatica che scientifica dell’evento in questione.
Una cosa va chiarita senza ulteriori indugi: il fotoritratto del buco nero, come era evidente, non è - e non avrebbe potuto essere - una fotografia. Si tratta di un rendering grafico, una ricostruzione ottenuta a partire da dati non visivi combinati ed elaborati sinteticamente attraverso l’applicazione di apposite procedure (i famigerati “algoritmi”). Personalmente, ho scelto di trascorrere il mio sabato mattina a leggere l’articolo First M87 Event Horizon Telescope Results. IV. Imaging the Central Supermassive Black Hole, il quarto della special issue di The Astrophysical Journal Letters, quello che descrive proprio le tecniche di elaborazione delle immaggini usate per ottenere la “fotografia” che tanto rumore ha fatto. Vi risparmierò i dettagli degli algoritmi, prevalentemente basati su massima verosimiglianza regolarizzata. Mi limiterò piuttosto, per la gioia di grandi e piccini, a fissare alcuni punti fondamentali:
- l’immagine (non già, dunque, la “fotografia”) del buco nero è stata generata sinteticamente;
- i dati sui quali gli scienziati si sono basati per generare l’immagine sono di origine radiotelescopica, nella fattispecie l’insieme dei segnali registrati simultaneamente da alcuni dei principali radiotelescopi del mondo nell’arco di alcuni giorni del mese di aprile 2017 (dando vita ad una sorta di macrosensore virtuale grande quasi come la Terra, capace di una risoluzione angolare che, come hanno sottolineato i portavoce del progetto EHT, avrebbe consentito di leggere un giornale a New York standosene seduti al tavolo di un caffè di Parigi);
- le prime immagini sintetiche del buco nero sono state ottenute già nei mesi successivi all’acquisizione dei dati (2017) da parte di quattro team indipendenti di ricercatori, cui era proibito, per protocollo, lo scambio mutuo di informazioni, onde evitare contaminazioni culturali pregiudizievoli (bias) sull’esito dell’elaborazione grafica;
- gli algoritmi applicati (tutti già noti nella letteratura scientifica, ovvero varianti minime di tecniche consolidate) usano modelli che richiedono assunzioni arbitrarie sulla natura di alcuni fenomeni statistici (quale la distribuzione di alcune fonti di rumore), ipotizzando ad esempio che essi siano distribuiti secondo leggi Gaussiane;
- altri parametri degli algoritmi (ad esempio le costanti di “peso” del regolarizzatore, che è risultato fondamentale nella ricerca condotta dagli scienziati dello EHT) andrebbero fissati empiricamente, cosa che non si può fare in modo “esatto” in assenza di reali feedback - per prove ed errori - sulla correttezza di ciò che si ottiene, di volta in volta, al variare di quegli stessi parametri. Sopperire a questi feedback reali con valutazioni soggettive della qualità delle immagini ottenute ha portato ad imbattersi di nuovo nel “pregiudizio culturale” di cui al punto 3.
Di tutto questo bisogna essere consapevoli e si deve tenere conto nel valutare la reale portata dell’immagine del buco nero che è stata rilasciata alla stampa nei giorni scorsi. In particolare, della dipendenza dell’immagine stessa dalla scelta (più o meno plausibile) di modelli, algoritmi, e parametri; nonché dell’incidenza che, ineludibilmente, il pregiudizio culturale degli stessi ricercatori può avere avuto su tale scelta. A questo proposito non possono non risuonare come una sorta di monito sommesso le parole dell’astrofisico teorico Avery Broderick, padre di modelli del comportamento della luce a stretto ridosso dell’orizzonte degli eventi (il “confine” del buco nero) nell’ambito del quadro ampio della teoria della relatività generale, il quale si è dichiarato sbalordito dal fatto che l’immagine coincidesse così smaccatamente con le previsioni teoriche. Temo non serva aggiungere altro. Se non la bellissima "Black Hole Sun" di Chris Cornell in versione acustica: