Siamo tutti in attesa del pronunciamento definitivo della Camera dei Deputati sull'emendamento della Lega che prevede un finanziamento ponte volto a mantenere operativa Radio Radicale per l'anno in corso. Fino a prova contraria, con l'approvazione avvenuta una settimana fa al Senato della mozione di Lega e M5S che garantirebbe la copertura triennale delle sole spese di digitalizzazione dell'Archivio di interesse storico della Radio, sembra che stiano davvero svanendo le residue speranze degli italiani di poter continuare ad ascoltare le dirette dei lavori parlamentari. A me pare che questa sia solo una tappa di un preoccupante percorso di adulterazione del nostro sistema mass-mediatico, un percorso che solleva molteplici interrogativi in merito alla completezza e alla trasparenza dell'informazione. Requisiti, questi ultimi, fondamentali per la vita democratica del Paese. Onde evitare di essere tacciato di eccessivo pessimismo mi limiterò di seguito a fare alcuni richiami ai fatti, lasciando che ognuno tragga da sé le proprie conclusioni. Credo sia necessario prendere le mosse da una memorabile dichiarazione programmatica di Beppe Grillo, risalente al 18 giugno 2014, relativa alla chiusura del quotiidinao l'Unità: "Il nuovo vento della rete e della fine, lenta ma implacabile, dell'editoria assistita sta producendo i suoi effetti: la scomparsa dei giornali. Un'ottima notizia per un paese semilibero per la libertà di informazione come l'italia. Meno giornali significa infatti più informazione" (la Repubblica, 18 giugno 2014). In sostanza, per Beppe Grillo l'abdicare alla libertà di stampa sarebbe stato preferibile al tollerare la presenza nel panorama mediatico di testate a vario titolo faziose. Grillo ventilava inoltre l'idea che lo Stato, intrinsecamente, non dovesse "assistere" l'editoria, il che equivaleva implicitamente a dire che esso non dovesse contribuire al co-finanziamento di settori che, pur essendo fondamentali per un Paese civile, difficilmente potessero fianziarsi per intero in modo autonomo. Pochi mesi più tardi, il 29 settembre dello stesso anno, Gianroberto Casaleggio in persona preconizzò la fine dei giornali a partire dal 2027: "Stampare giornali o investirci oggi equivale a studiare da maniscalco al tempo in cui Henry Ford lanciava la Ford T" (il Corriere della Sera, 29 settembre 2014). Si inizia dunque ad avere l'impressione che i grillini, andati nel frattempo al Governo, si stiano oggi adoperando allo stremo delle loro forze per rendere autoavveratasi la profezia del caro estinto.
L'aria fosca e foriera di tempesta che spira sulla stampa italiana (e sui suoi pochi fruitori) sembra infatti essere montata, lentamente ma inesorabilmente, dai due capisaldi del 5S-pensiero postulati da Grillo e Casaleggio Senior cinque anni orsono. Dall'estate del 2014 si è arrivati a quella del 2018. Nel mese di luglio dello scorso anno, in occasione dell'indimenticabile party dato dal M5S davanti a Montecitorio per celebrare il taglio dei vitalizi, il portavoce di Palazzo Chigi (e maestro di propagande) Rocco Casalino apostrofò il giornalista del Foglio Salvatore Merlo con un'autentica "intimidazione" (come fu definita dallo stesso Merlo) che suonava letteralmente così: "Adesso che il Foglio chiude, che fai? Mi dici a che serve il Foglio? Non conta nulla... Perché esiste?" (il Foglio, 14 Luglio 2018). Le massime cariche della Federazione nazionale della Stampa italiana, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, ebbero a replicare amaramente (e vale la pena di riferirlo integralmente) che "non stupisce che il portavoce di Palazzo Chigi Rocco Casalino auspichi la chiusura di un giornale. (...) L'atteggiamento e le parole di Casalino, non nuovo a proclami e minacce nei confronti di suoi colleghi giornalisti, danno l'esatta dimensione della concezione che lui e i suoi danti causa hanno della democrazia e delle istituzioni'' (sito web della Federazione Nazionale della Stampa Italiana).
Veniamo al 2019, anno in cui dalle parole si è passati ai fatti. Con la manovra finanziaria approvata al buio dalle Camere all'antivigilia dello scorso Natale sono diventati definitivi i tagli progressivi ai contributi statali all'editoria voluti dal M5S. I tagli porteranno a un completo azzeramento del finanziamento a decorrere dal 2022. Vittime sacrificali illustri (e destinate a lasciare vuoti difficilmente colmabili nei rispettivi ambiti) saranno, tra le altre, le testate l'Avvenire e il Manifesto. Naturalmente il sacrificio è stato officiato in assenza di un benché minimo dibattito pubblico preventivo, assenza causata dall'inviolabilità delle festività natalizie, dal ritardo inaudito (e dall'aura di mistero) con cui la manovra è approdata alle Camere, e soprattutto dalla mole soverchia di abbacinanti provvedimenti-bandiera in deficit sotto cui i tagli all'editoria erano sepolti. Nonostante tutto, se ne è però accorto benissimo il Consiglio d’Europa che nel rapporto diffuso l'11 febbraio scorso dalla propria Piattaforma per la protezione e la salvaguardia del giornalismo, rapporto rilanciato dal Manifesto il giorno successivo, affermava che "Roma minaccia la libertà di stampa", annoverando appunto tra le motivazioni delle proprie conclusioni la "abolizione dei sussidi pubblici alla stampa", nonché la constatazione che "Di Maio e Salvini usano regolarmente sui social una retorica ostile nei confronti dei giornalisti", e infine la reiterata minaccia salviniana di "rimuovere la protezione della polizia per il giornalista investigativo Roberto Saviano". Dal rapporto del Consiglio d’Europa l’Italia dell'informazione è emersa come un'osservata speciale, in bella compagnia di Russia, Turchia e Ungheria.
Proseguendo il nostro aspro cammino lungo l'italica Via Crucis mass-mediatica, il 12 marzo nella sua Bordin Line (su Il Foglio) Massimo Bordin proponeva una riflessione sul clamoroso lapsus in cui Davide Casaleggio era incappato nel corso di un'intervista rilasciata in quegli stessi giorni sul medesimo quotidiano. Parlando proprio del successo di cui il M5S si poteva vantare per avere tagliato i fondi all'editoria, Casaleggio Jr. aveva detto “i giornali erano pagati dallo stato e scrivevano quello che voleva lo stato”. Al di là dell'apparente confusione tra stato e governo, il lapsus avrebbe tradito secondo Bordin un retropensiero di terrifica schiettezza: "via i fondi all'editoria per reprimere il dissenso". A Bordin non era rimasto che chiosare mestamente: "Uno dei pochissimi risultati che il M5s dirà di avere raggiunto con questa legislatura sarà quello della chiusura del Manifesto e di Radio Radicale".
Come annunciato ufficialmente sulla pagina web che il Governo italiano dedica al Dipartimento per l'informazione e l'editoria, il 25 marzo sono stati nel frattempo inaugurati i cosiddetti "stati generali dell'editoria", organizzati dal Sottosegretario di Stato con delega all'informazione e all'editoria, quel Vito Crimi che lo stesso Massimo Bordin aveva definito il "gerarca minore". Obiettivo dichiarato: "il rinnovamento a trecentosessanta gradi di un settore strategico come quello dell’editoria, dal cittadino all’editore". Vista l'aria che tira, il "cittadino" non capisce se ci sia da rallegrarsene o da preoccuparsene ulteriormente. Crimi ha dichiarato tra l'altro di augurarsi che "dagli stati generali dell'editoria arrivino proposte per aiutare un settore che sta rapidamente cambiando il modo di fruire l'informazione, un aiuto che porti miglioramenti per i giornalisti, per gli editori ma soprattutto per i cittadini". Già, ancora loro, i "cittadini". Perché, prosegue Crimi, "ora più che mai si avverte l'esigenza di un confronto serio e diretto, affinché governo e tutte le categorie di attori della filiera di produzione e distribuzione delle notizie dialoghino sul futuro dell'informazione (...), oggetto di un ulteriore momento di confronto pubblico". Pur volendo fugare seduta stante taluni spettri che l'infelice espressione "produzione delle notizie" sembra (a sua insaputa) evocare, è comunque un ben curioso modo di aiutare l'editoria quello pentastellato. Altrettanto curioso è il tenore del "serio e diretto" confronto tra Governo e testate a rischio di chiusura. Per esempio, la reiterata richiesta di incontro con Di Maio (in quanto titolare del MISE) avanzata da Radio Radicale non ha, ad oggi, trovato risposta. E curioso è, infine, il modo di coinvolgere i principali "attori della filiera", i cittadini per l'appunto, che quasi per contrappasso hanno potuto ascoltare i lavori di questi Stati Generali proprio (e solo) attraverso la stessa Radio Radicale, che li ha trasmessi e resi poi disponibili per la consultazione pubblica tramite il proprio archivio online. Con il rifiuto governativo fortemente caldeggiato da Crimi di rinnovare la Convenzione a Radio Radicale per la trasmissione delle dirette delle Camere e delle Commissioni parlamentari, convenzione chiusasi il 21 maggio scorso, quel Parlamento che doveva essere "aperto come una scatoletta di tonno" davanti agli occhi dei cittadini è stato invece paradossalmente chiuso e sigillato (se non fosse per l'ostinata buona volontà dell'emittente diretta da Alessio Falconio, la quale continua unilateralmente a trasmettere le dirette "in convenzione"). Anche Radio Radicale, già colpita dai suddetti tagli all'editoria e orbata del contributo per la convenzione, si avvia forse lungo il viale del tramonto, non potendo contare su introiti dal settore privato (non trattandosi di una radio commerciale). Poco importa l'occultamento dei lavori parlamentari se l'obiettivo che si deve a tutti i costi centrare è quello di spegnere un'altra voce "del dissenso".
Nel contempo, l'occupazione degli spazi televisivi pubblici e privati da parte dei gialloverdi è andata raggiungendo livelli tali da far apparire amatoriale quella operata a suo tempo da Silvio Berlusconi (e contro cui i grillini si erano scagliati ferocemente). L'Agcom ha ripetutamente denunciato l'anomalia e la sistematica violazione delle regole (pur opinabili) sulla par condicio, ma i suoi appelli sono caduti nel vuoto. I dati aggregati Agcom sulla presenza di esponenti politici nei telegionali e nei talk-show di approfondimento politico di Rai, Mediaset, La7 e Sky nel mese di gennaio 2019 hanno evidenziato che sommando i minutaggi concessi ai rappresentanti del governo, a quelli del M5S e a quelli della Lega, si è arrivati a superare il 60% delle presenze complessive (i dati analitici, anche per altri periodi, sono disponibili sul sito di Agcom). La macchina perfetta della dialettica interna alla compagine di governo, quella dei gialli e dei verdi in perenne mutuo battibeccare, ha allo stesso tempo magnificato questo fenomeno e ne ha tratto rinnovata e crescente linfa. Come a rimarcare, peraltro, che l'unica forma di dissenso cui ci si avvia a concedere uno spazio mediatico è quella del dissenso interno.
Nemmeno a farlo apposta la stampa italiana (sempre prona a lasciarsi ipnotizzare dalla spirale senza fine delle beghe di Palazzo) non ha perso l'occasione per rendere ancora più preoccupante il quadro, compiendo due eclatanti passi falsi di matrice autolesionistica e, in ultima analisi, lesiva dell'interesse dei cittadini. Del primo ho riferito nel post "La via della seta mediatica: incontro tra ANSA e Xinhua ai confini del regime" del 24 marzo scorso e nel suo corollario del 29 marzo, dove ho portato all'attenzione del lettore il sottaciuto accordo tra la nostrana Agenzia Nazionale della Stampa Associata (ANSA) e la Xinhua (Agenzia Nuova Cina) per il rilancio sui giornali italiani delle informazioni cinesi di regime, sic et simpliciter, con tanto di episodio intimidatorio ai danni della giornalista Giulia Pompili de Il Foglio. Il secondo, a proposito del quale mi riservo di scrivere un post allorquando si riuscirà a saperne di più, è invece il modo parziale in cui sui giornali italiani si è data notizia della nuova direttiva europea 2019/790 sul copyright (altro tema di cui - ma guarda a volte le coincidenze - si occuperanno gli stati generali dell'editoria). Sui giornali italiani la complessa discussione in materia è infatti stata banalizzata, riducendola prevalentemente ad uno scontro ideologico tra gli eroici difensori della sacrosanta proprietà intellettuale da una parte e gli esecrabili pirati della Filibusta dall'altra, tertium non datur. Questa banalizzazione è strumentale agli interessi commerciali degli editori degli stessi giornali, cosicché lo schieramento delle diverse testate in favore della normativa è risultato trasversale e alquanto sommesso. Tanto da eludere una serie di aspetti critici legati proprio a taluni rischi per la libertà di informazione che potrebbero derivare dalle leggi nazionali che dovranno essere approvate entro due anni per recepire la normativa stessa. Aspetti critici che, per contro, hanno indotto molti mass-media stranieri a manifestare più di una perplessità. Ma tanto fa, noi abbiamo già le nostre belle gatte da pelare.
L'aria fosca e foriera di tempesta che spira sulla stampa italiana (e sui suoi pochi fruitori) sembra infatti essere montata, lentamente ma inesorabilmente, dai due capisaldi del 5S-pensiero postulati da Grillo e Casaleggio Senior cinque anni orsono. Dall'estate del 2014 si è arrivati a quella del 2018. Nel mese di luglio dello scorso anno, in occasione dell'indimenticabile party dato dal M5S davanti a Montecitorio per celebrare il taglio dei vitalizi, il portavoce di Palazzo Chigi (e maestro di propagande) Rocco Casalino apostrofò il giornalista del Foglio Salvatore Merlo con un'autentica "intimidazione" (come fu definita dallo stesso Merlo) che suonava letteralmente così: "Adesso che il Foglio chiude, che fai? Mi dici a che serve il Foglio? Non conta nulla... Perché esiste?" (il Foglio, 14 Luglio 2018). Le massime cariche della Federazione nazionale della Stampa italiana, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, ebbero a replicare amaramente (e vale la pena di riferirlo integralmente) che "non stupisce che il portavoce di Palazzo Chigi Rocco Casalino auspichi la chiusura di un giornale. (...) L'atteggiamento e le parole di Casalino, non nuovo a proclami e minacce nei confronti di suoi colleghi giornalisti, danno l'esatta dimensione della concezione che lui e i suoi danti causa hanno della democrazia e delle istituzioni'' (sito web della Federazione Nazionale della Stampa Italiana).
Veniamo al 2019, anno in cui dalle parole si è passati ai fatti. Con la manovra finanziaria approvata al buio dalle Camere all'antivigilia dello scorso Natale sono diventati definitivi i tagli progressivi ai contributi statali all'editoria voluti dal M5S. I tagli porteranno a un completo azzeramento del finanziamento a decorrere dal 2022. Vittime sacrificali illustri (e destinate a lasciare vuoti difficilmente colmabili nei rispettivi ambiti) saranno, tra le altre, le testate l'Avvenire e il Manifesto. Naturalmente il sacrificio è stato officiato in assenza di un benché minimo dibattito pubblico preventivo, assenza causata dall'inviolabilità delle festività natalizie, dal ritardo inaudito (e dall'aura di mistero) con cui la manovra è approdata alle Camere, e soprattutto dalla mole soverchia di abbacinanti provvedimenti-bandiera in deficit sotto cui i tagli all'editoria erano sepolti. Nonostante tutto, se ne è però accorto benissimo il Consiglio d’Europa che nel rapporto diffuso l'11 febbraio scorso dalla propria Piattaforma per la protezione e la salvaguardia del giornalismo, rapporto rilanciato dal Manifesto il giorno successivo, affermava che "Roma minaccia la libertà di stampa", annoverando appunto tra le motivazioni delle proprie conclusioni la "abolizione dei sussidi pubblici alla stampa", nonché la constatazione che "Di Maio e Salvini usano regolarmente sui social una retorica ostile nei confronti dei giornalisti", e infine la reiterata minaccia salviniana di "rimuovere la protezione della polizia per il giornalista investigativo Roberto Saviano". Dal rapporto del Consiglio d’Europa l’Italia dell'informazione è emersa come un'osservata speciale, in bella compagnia di Russia, Turchia e Ungheria.
Proseguendo il nostro aspro cammino lungo l'italica Via Crucis mass-mediatica, il 12 marzo nella sua Bordin Line (su Il Foglio) Massimo Bordin proponeva una riflessione sul clamoroso lapsus in cui Davide Casaleggio era incappato nel corso di un'intervista rilasciata in quegli stessi giorni sul medesimo quotidiano. Parlando proprio del successo di cui il M5S si poteva vantare per avere tagliato i fondi all'editoria, Casaleggio Jr. aveva detto “i giornali erano pagati dallo stato e scrivevano quello che voleva lo stato”. Al di là dell'apparente confusione tra stato e governo, il lapsus avrebbe tradito secondo Bordin un retropensiero di terrifica schiettezza: "via i fondi all'editoria per reprimere il dissenso". A Bordin non era rimasto che chiosare mestamente: "Uno dei pochissimi risultati che il M5s dirà di avere raggiunto con questa legislatura sarà quello della chiusura del Manifesto e di Radio Radicale".
Come annunciato ufficialmente sulla pagina web che il Governo italiano dedica al Dipartimento per l'informazione e l'editoria, il 25 marzo sono stati nel frattempo inaugurati i cosiddetti "stati generali dell'editoria", organizzati dal Sottosegretario di Stato con delega all'informazione e all'editoria, quel Vito Crimi che lo stesso Massimo Bordin aveva definito il "gerarca minore". Obiettivo dichiarato: "il rinnovamento a trecentosessanta gradi di un settore strategico come quello dell’editoria, dal cittadino all’editore". Vista l'aria che tira, il "cittadino" non capisce se ci sia da rallegrarsene o da preoccuparsene ulteriormente. Crimi ha dichiarato tra l'altro di augurarsi che "dagli stati generali dell'editoria arrivino proposte per aiutare un settore che sta rapidamente cambiando il modo di fruire l'informazione, un aiuto che porti miglioramenti per i giornalisti, per gli editori ma soprattutto per i cittadini". Già, ancora loro, i "cittadini". Perché, prosegue Crimi, "ora più che mai si avverte l'esigenza di un confronto serio e diretto, affinché governo e tutte le categorie di attori della filiera di produzione e distribuzione delle notizie dialoghino sul futuro dell'informazione (...), oggetto di un ulteriore momento di confronto pubblico". Pur volendo fugare seduta stante taluni spettri che l'infelice espressione "produzione delle notizie" sembra (a sua insaputa) evocare, è comunque un ben curioso modo di aiutare l'editoria quello pentastellato. Altrettanto curioso è il tenore del "serio e diretto" confronto tra Governo e testate a rischio di chiusura. Per esempio, la reiterata richiesta di incontro con Di Maio (in quanto titolare del MISE) avanzata da Radio Radicale non ha, ad oggi, trovato risposta. E curioso è, infine, il modo di coinvolgere i principali "attori della filiera", i cittadini per l'appunto, che quasi per contrappasso hanno potuto ascoltare i lavori di questi Stati Generali proprio (e solo) attraverso la stessa Radio Radicale, che li ha trasmessi e resi poi disponibili per la consultazione pubblica tramite il proprio archivio online. Con il rifiuto governativo fortemente caldeggiato da Crimi di rinnovare la Convenzione a Radio Radicale per la trasmissione delle dirette delle Camere e delle Commissioni parlamentari, convenzione chiusasi il 21 maggio scorso, quel Parlamento che doveva essere "aperto come una scatoletta di tonno" davanti agli occhi dei cittadini è stato invece paradossalmente chiuso e sigillato (se non fosse per l'ostinata buona volontà dell'emittente diretta da Alessio Falconio, la quale continua unilateralmente a trasmettere le dirette "in convenzione"). Anche Radio Radicale, già colpita dai suddetti tagli all'editoria e orbata del contributo per la convenzione, si avvia forse lungo il viale del tramonto, non potendo contare su introiti dal settore privato (non trattandosi di una radio commerciale). Poco importa l'occultamento dei lavori parlamentari se l'obiettivo che si deve a tutti i costi centrare è quello di spegnere un'altra voce "del dissenso".
Nel contempo, l'occupazione degli spazi televisivi pubblici e privati da parte dei gialloverdi è andata raggiungendo livelli tali da far apparire amatoriale quella operata a suo tempo da Silvio Berlusconi (e contro cui i grillini si erano scagliati ferocemente). L'Agcom ha ripetutamente denunciato l'anomalia e la sistematica violazione delle regole (pur opinabili) sulla par condicio, ma i suoi appelli sono caduti nel vuoto. I dati aggregati Agcom sulla presenza di esponenti politici nei telegionali e nei talk-show di approfondimento politico di Rai, Mediaset, La7 e Sky nel mese di gennaio 2019 hanno evidenziato che sommando i minutaggi concessi ai rappresentanti del governo, a quelli del M5S e a quelli della Lega, si è arrivati a superare il 60% delle presenze complessive (i dati analitici, anche per altri periodi, sono disponibili sul sito di Agcom). La macchina perfetta della dialettica interna alla compagine di governo, quella dei gialli e dei verdi in perenne mutuo battibeccare, ha allo stesso tempo magnificato questo fenomeno e ne ha tratto rinnovata e crescente linfa. Come a rimarcare, peraltro, che l'unica forma di dissenso cui ci si avvia a concedere uno spazio mediatico è quella del dissenso interno.
Nemmeno a farlo apposta la stampa italiana (sempre prona a lasciarsi ipnotizzare dalla spirale senza fine delle beghe di Palazzo) non ha perso l'occasione per rendere ancora più preoccupante il quadro, compiendo due eclatanti passi falsi di matrice autolesionistica e, in ultima analisi, lesiva dell'interesse dei cittadini. Del primo ho riferito nel post "La via della seta mediatica: incontro tra ANSA e Xinhua ai confini del regime" del 24 marzo scorso e nel suo corollario del 29 marzo, dove ho portato all'attenzione del lettore il sottaciuto accordo tra la nostrana Agenzia Nazionale della Stampa Associata (ANSA) e la Xinhua (Agenzia Nuova Cina) per il rilancio sui giornali italiani delle informazioni cinesi di regime, sic et simpliciter, con tanto di episodio intimidatorio ai danni della giornalista Giulia Pompili de Il Foglio. Il secondo, a proposito del quale mi riservo di scrivere un post allorquando si riuscirà a saperne di più, è invece il modo parziale in cui sui giornali italiani si è data notizia della nuova direttiva europea 2019/790 sul copyright (altro tema di cui - ma guarda a volte le coincidenze - si occuperanno gli stati generali dell'editoria). Sui giornali italiani la complessa discussione in materia è infatti stata banalizzata, riducendola prevalentemente ad uno scontro ideologico tra gli eroici difensori della sacrosanta proprietà intellettuale da una parte e gli esecrabili pirati della Filibusta dall'altra, tertium non datur. Questa banalizzazione è strumentale agli interessi commerciali degli editori degli stessi giornali, cosicché lo schieramento delle diverse testate in favore della normativa è risultato trasversale e alquanto sommesso. Tanto da eludere una serie di aspetti critici legati proprio a taluni rischi per la libertà di informazione che potrebbero derivare dalle leggi nazionali che dovranno essere approvate entro due anni per recepire la normativa stessa. Aspetti critici che, per contro, hanno indotto molti mass-media stranieri a manifestare più di una perplessità. Ma tanto fa, noi abbiamo già le nostre belle gatte da pelare.